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Cultura

Il Liceo femminile 1923-1928

Le storie della scuola che riguardano il periodo fascista e la riforma Gentile si soffermano poco sul Liceo femminile.

Lo scarsissimo numero di allieve rappresentò un esperimento fallimentare nella politica scolastica del regime; eppure è un illuminante esempio di come l’istruzione femminile veniva considerata dal fascismo nella generale prospettiva di ristrutturazione del sistema scolastico, in quanto scuola che, soddisfacendo il bisogno di dare alla donna un’istruzione separata da quella maschile, la escludeva dagli studi superiori compiendo nell’arco di tre anni un percorso senza sbocchi.

Licei femminili fascismo- (Credit: Ansa Foto)- (Cultureducazione.it)

Accanto ad essa veniva istituita l’altra scuola «di scarico», la complementare, creata per accogliere parte della popolazione scolastica esclusa dagli studi classici, riservati alla formazione della futura classe dirigente, e incanalare in un percorso breve e di modesto sapere la folla di studenti che non poteva permettersi di proseguire gli studi a livello superiore.

Gentile tentò di dimostrare di aver realizzato le istanze che da tempo si facevano sempre più pressanti di una scuola femminile di cultura disinteressata, «adatta ai bisogni intellettuali e morali delle signorine» nel quadro di «un organismo, in cui potessero essere largamente soddisfatte tutte le giuste esigenze della cultura nazionale».

In realtà questa scuola, dileggiata dai contemporanei e trascurata negli studi successivi, era stata creata con il preciso scopo di stornare le iscrizioni dall’istituto magistrale, ormai sovraffollato in quanto l’unico in grado di offrire alle donne una discreta cultura generale, oltre a prepararle a una professione, quella dell’insegnamento, considerata più confacente alle donne; e per salvaguardare al tempo stesso le scuole ritenute più adatte alla popolazione maschile, vale a dire il liceo classico e l’istituto tecnico, da una «femminilizzazione della scuola».

Tutto questo mentre si diffondeva, sia in Italia sia all’estero, il principio della coeducazione dei sessi, e veniva affermandosi l’idea della parità fisica e intellettuale fra la donna e l’uomo. Era dunque un’istituzione di stampo conservatore e retrogrado, che tendeva a relegare la donna in un ruolo subalterno considerandola incapace di intraprendere studi superiori e dedicarsi a professioni autonome e a impieghi come avveniva per gli uomini di più.

Era una scuola borghese, pensata per le signorine di buona famiglia che non avevano interesse a proseguire gli studi né la necessità di prepararsi a un mestiere – per queste ultime era sufficiente la scuola complementare – e per le quali l’educazione poteva limitarsi a un’infarinatura di nozioni umanistiche completata con lavori femminili, economia domestica, lezioni di musica e danza; tutto ciò, insomma, che poteva servire da ornamento in un salotto.

Secondo la lettura di Marzio Barbagli, la riforma Gentile fu anche una risposta reazionaria allo scompenso che esisteva tra scuola e mercato del lavoro e che generava una sovrapproduzione di forze intellettuali; fra queste ultime era sempre più rilevante la presenza delle donne nelle scuole secondarie e nelle Università.

Il sistema ad ostacoli rappresentato dai numerosi esami introdotti fra un anno e l’altro dei vari corsi, la crescente difficoltà dei programmi e la drastica riduzione di scuole, nonché la limitazione degli accessi agli studi universitari furono le misure adottate al fine di impedire le lunghe carriere scolastiche alle masse per riservarle alla classe dirigente; per opporsi alla femminilizzazione nelle scuole fu pensato un sistema di segregazione culturale che era espressione di un più vasto disegno discriminante, e che in campo scolastico doveva raggiungere l’apice con l’esclusione delle donne da alcuni insegnamenti nelle scuole secondarie

«Varrà allo storico il Liceo femminile, nuovamente istituito secondo la riforma Gentile, quale sintomo e simbolo delle psicologie dominanti al tempo dell’avvento fascista. Con delicatezza di cuore vi vagheggiano infatti umanisti e cortigiani, musiche e danze».

Queste le parole di Gobetti, nei giorni che seguirono l’entrata in vigore della riforma; ma già subito dopo la soppressione del Liceo femminile, avvenuta nel 1928, le varie storie della pedagogia e delle istituzioni scolastiche pubblicate durante il fascismo tendevano a tacerne l’esistenza: anche sull’Enciclopedia Italiana (1933) troviamo delle scarne menzioni, che non offrono a riguardo alcuna informazione.

Fa eccezione il testo, edito nel 1941 dal Ministero dell’Educazione Nazionale, Dalla riforma Gentile alla Carta della scuola, in cui si delinea una storia del Liceo femminile, nel tentativo di dimostrarne la continuità con le proposte di scuole femminili all’indomani della legge Casati, che in realtà sfociarono solo in parte nella realizzazione gentiliana[9].

Le origini di questa scuola definita «liceo», ma che del liceo aveva ben poco, possono essere ricostruite a partire dai collegi ed educandati già esistenti negli stati preunitari, i cui programmi, tranne che per le innovazioni gentiliane, quali l’introduzione del latino e della filosofia, erano abbastanza simili; un’istituzione analoga era presente nell’Impero austroungarico, dove i Licei femminili, che davano una preparazione culturale e professionale, erano molto frequentati, e sarebbero stati ripresi e trasformati da Gentile che li aveva trovati nelle terre redente.

Nelle intenzioni di Gentile c’era, probabilmente, la volontà di creare una scuola che, con l’andar del tempo, si sostituisse ai convitti e gli educandati religiosi che detenevano il monopolio dell’istruzione per le giovinette; ma questa scuola che, nel suo anacronismo, strideva perfino con l’idea che del ruolo femminile aveva il fascismo, non superò mai, se non di pochissimo, il centinaio di iscritte.

Osserva Victoria De Grazia, in un suo studio sulle donne e il fascismo, che la riforma esprimeva la contraddittoria visione della donna nel regime: «come riproduttrici della razza le donne dovevano incarnare i ruoli tradizionali, essere stoiche, silenziose, e sempre disponibili; come cittadine e patriote, dovevano essere moderne, cioè combattive, presenti sulla scena pubblica e pronte alla chiamata».

Ma la signorina che nel Liceo femminile suonava il pianoforte, leggeva i classici latini e ricamava vestine di neonato, ricalcando un arcaico ideale di educazione aristocratica, era assai distante sia dalla figura di «fattrice» sia da quella di patriottica fascista.

I Licei femminili nelle terre redente

Prima dell’armistizio esistevano, nelle terre redente, quattro Licei femminili con insegnamento in lingua italiana, istituiti dai Comuni e dalle Provincie di Pola, Rovereto e Trieste in base alle leggi austroungariche del 1910 e del 1912, fra i quali l’unico di fondazione statale era quello di Trieste, in lingua tedesca, che venne soppresso dopo l’annessione.

Simili, per struttura, alle höhere Mädchenschule tedesche e ai Licei femminili francesi fondati nel 1880 su iniziativa del deputato Camille Sée, il loro obiettivo era quello di fornire alle fanciulle di estrazione borghese una cultura laica senza fini professionali; l’istituto magistrale era invece concepito come scuola decisamente professionalizzante, a differenza della scuola normale del Regno d’Italia che, come si è visto, tentava di conciliare la finalità culturale con quella formativa del corpo insegnante magistrale.

I Licei femminili austroungarici si componevano di 6 classi ordinarie, cui se ne poteva aggiungere una settima che, a fianco dei corsi complementari liberi, consentiva l’accesso ad alcune facoltà universitarie o l’acquisizione del diploma magistrale; il diploma era anche titolo di ammissione ad alcuni impieghi statali e ad esami di abilitazione all’insegnamento di alcune materie. In tutto l’Impero nel 1900 si contavano 9 istituti con 1.700 alunne (sommate a quelle delle scuole superiori femminili), che dopo le leggi riformatrici nel 1912 erano saliti a 66 con 11.286 alunne.

Le donne a scuola durante il fascismo- (Cultureducazione.it)

Fino al 1922 era prevalsa la tendenza a non applicare le norme legislative del Regno alle scuole medie dei territori ex austroungarici, mantenendone gli ordinamenti; la riforma Gentile venne invece estesa a tutto il territorio italiano. Nell’anno scolastico 1922-23 erano funzionanti, nelle nuove provincie, due Licei femminili di cultura comunali, il «Riccardo Pitteri» e il «Giosuè Carducci» con annesso Istituto Magistrale, entrambi a Trieste, più quattro licei pareggiati: il Liceo femminile provinciale di cultura «Regina Elena» a Pola, la scuola superiore per giovanette di lingua tedesca (Höhere Töchterschule) a Bolzano, il Liceo femminile delle Dame Inglesi a Merano, di lingua tedesca, e il Liceo femminile comunale di cultura a Rovereto[14]; nell’anno successivo venne chiuso il liceo di Pola e il Carducci di Trieste fu unificato con il Pitteri[15].

Il Liceo femminile comunale «Riccardo Pitteri», istituito a Trieste nel 1913, soppresso dall’impero austriaco nel 1915 e poi ricostituito con l’armistizio del 1918, era una scuola secondaria composta da sei classi liceali con annesso un ginnasio classico; di fondazione non statale, ottenne il pareggiamento nel 1922. Vi erano impartiti gli insegnamenti di italiano, francese, tedesco, storia, geografia, matematica, storia naturale, somatologia e igiene, fisica, chimica, disegno, calligrafia, lavori femminili, educazione fisica e, negli ultimi due anni di corso, filosofia; le materie facoltative erano canto, stenografia, lavori femminili negli ultimi due anni di scuola e due corsi completivi di computisteria e matematica, come previsto dal programma didattico del 14 settembre 1920[16].

Il primo triennio poteva sostituire il corso inferiore di scuola normale, istituto tecnico e scuola media commerciale; dopo cinque anni era consentita l’iscrizione al corso magistrale biennale. La licenza dava accesso all’istituto superiore di magistero, all’istituto di magistero di educazione fisica e a una serie di esami e di corsi specializzanti; veniva inoltre equiparata a tutti gli effetti a quella di scuola normale, salvo che per l’esercizio dell’insegnamento elementare[17].

Nell’anno scolastico 1921-22 il «Pitteri» contava 576 iscritte, di cui 461 nelle sei classi liceali e le restanti 115 in quelle ginnasiali. L’insegnamento facoltativo più seguito era il canto, con 345 preferenze; seguivano i lavori donneschi (99), la computisteria (42) e il corso complementare di matematica (31)[18]. Nel 1922-23 le alunne iscritte erano complessivamente 567, di cui 453 nelle classi liceali[19]; tre anni dopo la riforma Gentile si erano ridotte a ventisette.

Nel 1919 si svolse a Trieste il Congresso della scuola media redenta, in cui il Liceo femminile fu al centro di vivaci discussioni. Tre erano le tendenze che si delineavano nel dibattito: la soppressione del liceo, accusato di non essere una scuola né culturale né professionalizzante, null’altro che un inutile «vivaio di signorine frivole ed oziose»; la conservazione del liceo così com’era; la sua ristrutturazione, rendendolo una scuola più professionalizzante e moderna con un indirizzo più eminentemente pratico; fu quest’ultima a prevalere, con lo scarto di appena un voto [21].

L’anno successivo il MPI nominò una Commissione per riformare i Licei femminili, la quale approvò un nuovo ordinamento che prevedeva delle modifiche sostanziali ad orari e programmi, lasciando invariate la durata (6 anni) e gli insegnamenti fondamentali, che dovevano fornire una cultura generale con cognizioni di genere linguistico, letterario e scientifico.

Una delle novità era che al termine della terza classe era possibile ottenere, previo la frequenza di un corso di computisteria, un titolo di studio corrispondente a quella che in seguito sarebbe divenuta la licenza di scuola tecnica; le licenziate della quarta classe potevano, frequentando un anno di corso integrativo, essere ammesse alle facoltà universitarie. Venne poi progettato, ma mai attuato, un terzo corso di perfezionamento, quello magistrale, una sorta di canale provvisorio in attesa di una riforma delle scuole normali delle nuove provincie[22].

La riforma Gentile

Nel maggio 1923, in virtù dei pieni poteri concessi per un anno al governo Mussolini, fu varata la riforma Gentile, consistente in una serie di regi decreti non sottoposti ad alcun controllo parlamentare[23], così come era accaduto sessantaquattro anni prima per la legge Casati.

In continuità con quest’ultima si sottolineava il ruolo predominante della cultura umanistica, accentuando la scissione fra istruzione classica e istruzione tecnico-professionale e rendendo ancora più elitario, per la pesantezza dei programmi e la difficoltà degli esami, il liceo, strumento di preparazione della classe dirigente nazionale; anche a livello amministrativo veniva riconfermato il centralismo casatiano, con un rafforzamento del Consiglio superiore della P.I. e una generale gerarchizzazione della struttura.

Nella riforma confluivano i dibattiti e le elaborazioni dell’età giolittiana sulla scuola, ma l’istanza che ne veniva recepita era soprattutto quella di un’istruzione selettiva ed esclusiva[24]. Il corpus della riforma era costituito dai regi decreti che modificavano l’amministrazione scolastica, la scuola media, l’università e la scuola elementare, cui fece seguito una serie di regolamenti, norme e decreti.

Il decreto centrale era quello del 6 maggio 1923, n. 1054, che riorganizzava la scuola dagli 11 ai 14 anni secondo alcuni punti fondamentali: il nuovo esame di Stato, la drastica riduzione del numero degli istituti, la riconferma della supremazia del liceo classico e della cultura umanistica, con la conseguente dequalificazione delle scuole tecniche e la creazione di scuole «di scarico» fini a se stesse per i ceti meno abbienti.

In ottemperanza alle norme internazionali l’obbligo scolastico fu elevato al quattordicesimo anno di età; per permetterne l’assolvimento fu ideato il corso integrativo postelementare, della durata di tre anni, che dava un complemento d’istruzione al quinquennio elementare. In realtà tale corso, che doveva servire quale soluzione di «massa» per il popolo, non era presente su tutto il territorio e pochi furono coloro che lo frequentarono; privo di sbocchi e duramente criticato, nel 1929 venne soppresso.

Erano istituite la scuola complementare, che si concludeva in se stessa e dava accesso ai rami più bassi degli impieghi statali (anch’essa ben presto eliminata) e il nuovo istituto magistrale, radicalmente trasformato, che si proponeva come scuola di formazione umanistica, con il latino e senza più psicologia e tirocinio.

La scuola per eccellenza rimaneva il liceo classico, unico che dava accesso a tutte le facoltà universitarie, accanto al quale, abolito il liceo moderno, veniva creato il liceo «minore», lo scientifico: «Tendo a concentrare la funzione della scuola media nella scuola classica» affermava Gentile in un’intervista all’«Idea Nazionale» alla vigilia della riforma, «la quale, per il suo valore nazionale ed educativo, avrà una netta preminenza su le altre scuole destinate alla formazione dello spirito degli alunni».

Veniva, infine, «la più graziosa e assurda invenzione di Giovanni Gentile»[28]: il Liceo femminile. Così il filosofo ne giustificava la creazione in un’intervista al «Corriere Italiano» del 17 gennaio 1924:

«Molte fanciulle della borghesia, pur non avendo intenzione di dedicarsi all’insegnamento, frequentavano la scuola normale, che era l’unica scuola per signorine, o si istruivano in istituti privati. Creando lo schema del liceo femminile, abbiamo inteso di determinare il genere di cultura che si doveva dare in questi istituti privati e abbiamo voluto dar posto a quelle fanciulle che venivano escluse dagli istituti magistrali»[29].

Tale finalità veniva specificata anche nel RD: «I licei femminili hanno per fine d’impartire un complemento di cultura generale alle giovinette che non aspirino né agli studi superiori né al conseguimento di un diploma professionale».

Il Liceo femminile venne quindi istituito, oltre che per rispondere alla richiesta di istruzione media da parte della popolazione femminile che non aspirava al proseguimento degli studi, allo scopo di preservare dall’affollamento gli istituti magistrali, proteggendo nel contempo dall’«invasione delle donne» la scuola media pubblica, in particolare il liceo-ginnasio[31]. L’istituto, privo di corso inferiore, aveva la durata di tre anni e vi si accedeva dopo quattro anni di scuola media di primo grado, previo esame di ammissione [32]; al termine del triennio non si sosteneva l’esame di Stato come per i licei classico e scientifico, ma si otteneva una licenza inutilizzabile a livello professionale e che non consentiva il passaggio all’Università[33]. Le materie d’insegnamento erano lingue e letteratura italiana e latina, storia e geografia, filosofia, diritto ed economia politica; due lingue straniere, delle quali una obbligatoria e l’altra facoltativa; storia dell’arte; disegno; lavori femminili; musica e canto; uno strumento musicale; danza[34].

L’istituzione del Liceo femminile ben si accordava con l’immagine che Gentile aveva della donna: spiritualmente – oltre che fisicamente – diversa dall’uomo, e come tale limitata a livello sociale e culturale, destinata a ricoprire il ruolo di vestale del fuoco familiare, madre ed educatrice dei figli; in breve, una deliziosa e angelicata creatura subalterna, incapace di dedicarsi alle attività scientifiche e politiche, che rimanevano il «terreno di battaglia» dell’uomo.

In continuità con i pensatori ottocenteschi che, come Lombroso, consideravano la donna inferiore rispetto all’uomo nella linea evolutiva, per l’idealismo gentiliano era un essere di ottuse capacità, la cui comprensione dello spirito era imperfetta. Con la creazione di una «scuola adatta ai bisogni intellettuali e morali delle signorine» il filosofo giustificava la riduzione degli istituti magistrali da 153 a 87, come ebbe a spiegare in un discorso del 15 novembre 1923 al Consiglio Superiore della P.I.[37].

L’art. 69 della legge autorizzava l’istituzione di venti regi Licei femminili in tutto il Regno, e un decreto successivo disponeva l’istituzione di un liceo a partire dal 1° ottobre 1923 nei comuni di Cagliari, Cesena, Macerata, Milano, Napoli, Padova, Spoleto, Torino, Venezia e Verona[38]; fra questi dieci erano di fatto funzionanti nell’anno scolastico 1923-24 quelli di Cesena, Macerata, Milano, Napoli, Torino, Rovereto, Trieste[39]. Dei licei istituiti con un posteriore regio decreto a Rimini e a Siena solo quest’ultimo[40] risulta effettivamente attivo dal 1925 al 1928.

A Milano e a Napoli furono preventivati due corsi di Liceo femminile, così come a Trieste, nelle altre città (Cagliari, Cesena, Macerata, Padova, Spoleto, Torino, Venezia, Verona) fu preventivato un liceo a sezione unica; questi dieci istituti dovevano essere attivati entro il 1924. A essi vanno aggiunti quelli di Trieste e Rovereto (corso unico), di fondazione austroungarica; fu soppresso, subito dopo la redenzione, il Liceo femminile tedesco di Trieste, e identica sorte toccò in seguito al Liceo femminile provinciale di Pola.

I programmi del liceo femminile

L’esame di ammissione al Liceo femminile prevedeva prove scritte e orali di italiano e latino, conversazioni su alcuni argomenti di storia e di geografia, prove di disegno, canto e uno strumento musicale, e nelle intenzioni del legislatore doveva costituire un filtro che lasciasse accedere solo le più dotate di «grazia aristocratica»: «Si guarderà molto al gusto con cui si leggono gli autori prescelti e alla signorilità dell’espressione», si precisava nelle Avvertenze[42]. L’unica variazione che le materie d’insegnamento, riportate nella tabella 2, subirono con il ministro Fedele, fu la soppressione dell’insegnamento dell’educazione fisica.

Se le indicazioni di Gentile privilegiavano del latino l’aspetto estetico della letteratura, dando grande spazio alla lettura dei poeti e assegnando un ruolo marginale a Plinio, Livio, Cicerone e Tacito, il programma, dopo Fedele, diventa, nelle definizioni del Ministero dell’Educazione Nazionale (MEN), «più armonico e più completo e meglio rispondente al fine assegnato al liceo femminile: l’acquisto di una cultura generale di carattere disinteressato, la educazione al gusto “delle cose belle, alte, gentili”»[43]; le giovinette dovevano perciò dedicarsi allo studio dei costumi religiosi e domestici degli antichi romani, e nei programmi non mancava l’esaltazione della romanità e del cristianesimo.

L’esame di licenza comprendeva prove scritte e orali di italiano e latino, francese, la lingua facoltativa (inglese o tedesco); una prova orale di filosofia della durata di venti minuti, su argomenti di estetica, morale e sul problema conoscitivo più l’esposizione di un dialogo platonico; conversazioni di diritto ed economia politica, storia e geografia; ma questa era la parte minore dell’esame. Nelle materie artistiche veniva invece sottolineato il lato più «femminile» del tipo di scuola.

La prova pratica di disegno consisteva nell’esecuzione di un lavoro ornamentale su un «oggetto casalingo» in cui la candidata doveva dare prova di buon gusto; il programma di storia dell’arte era lo stesso del liceo classico, con l’avvertenza che «nel liceo femminile si richiederà una più profonda conoscenza delle cosiddette arti decorative considerata la funzione che la donna assume nell’ordinamento estetico della casa»; era ritenuto, invece, meno importante che le fanciulle conoscessero la storia dell’architettura.

Seguiva un programma di media difficoltà di musica e canto corale e uno strumento musicale, a scelta fra pianoforte e violino; poi l’esame di danza, in minima parte pratico, basato soprattutto su nozioni storiche e teoriche. Ma la parte predominante era costituita dai lavori femminili e dall’economia domestica, che insieme occupavano oltre la metà dell’intero programma. Venivano descritte nei minimi particolari le prove pratiche, complessivamente quindici, che la candidata avrebbe estratto a sorte ed eseguito, consistenti ognuna in una serie di lavori di taglio, ricamo, cucito a mano e a macchina, in cui abbondavano vestine e cuffiette da neonato.

Seguivano le prove orali, ossia una discussione del lavoro svolto, disegni alla lavagna e su carta di modelli, preventivi di spesa dell’acquisto dei materiali, ecc.; in tutto, l’esame pratico impegnava una giornata per sei ore, con un intervallo di due, e l’esame orale doveva occupare una ventina di minuti.

Agli esaminatori si raccomandava di tener conto, nella valutazione, «del gusto, del senso della misura e del possesso di quel discernimento che lascia saviamente interpretare tutte le libertà consentite dall’arte». La prova si concludeva con una conversazione di quindici minuti sulle nozioni di economia domestica, che comprendevano il bilancio familiare, la casa e la mobilia, le cure da darsi agli abiti e alla biancheria, l’alimentazione (inclusa l’utilizzazione degli avanzi) e gli animali domestici. Le Avvertenze in calce ai programmi richiamavano l’attenzione sulle finalità dell’istituto:

«Gli esami del liceo femminile devono essere un saggio di cultura generale. Senza molte minuzie, essi debbono dar prova che le candidate sono in grado di leggere ed apprezzare i migliori scrittori delle singole letterature, che hanno un’idea abbastanza concreta del mondo in cui debbono vivere, e sufficiente finezza spirituale per potervi esercitare la loro missione moralizzatrice.

Questi elementi sono troppo sottili perché possano chiaramente fissarsi in un programma di esame, ma l’esaminatore, tenendoli presenti e tenendo presente la natura e lo scopo dell’istituto, potrà formarsi una chiara idea del modo di interrogare che dovrà usare e dei limiti del programma materialmente indicato»[46].

Gusto, gentilezza e moralità erano dunque le parole d’ordine di questo programma d’esame decisamente sbilanciato verso le attività «femminili». Alla fine del 1924 le cifre riguardanti i risultati dei primi esami di Stato sono le seguenti: 3.737 diplomati al liceo classico, 310 allo scientifico, 3.719 abilitati all’istituto tecnico, sezione ragioneria, e 1.171 alla sezione agrimensura, 4.884 diplomati all’istituto magistrale. Le licenziate del liceo femminile erano appena 16, con due candidate respinte[47].

Il dibattito in Parlamento

In Parlamento la riforma Gentile venne discussa per la prima volta nel maggio 1923, in occasione del dibattito sull’approvazione del bilancio del MPI. La discussione riguardava solo una parte della riforma, quella relativa al riordino della scuola media, e vide i socialisti, rappresentati dai deputati Baratono, Zanzi e Lazzari in netto contrasto con Gentile.

La successiva discussione alla Camera si ebbe dal 17 al 19 dicembre 1924 sotto il successore di Gentile, Casati, sempre nel corso del dibattito sul bilancio del MPI. Stavolta i gruppi di opposizione riuniti nel cosiddetto Aventino avevano in gran parte disertato i lavori parlamentari per protestare contro il rapimento e la scomparsa del deputato socialista Matteotti.

In Senato la discussione avvenne nel 1925, nelle tornate dal 2 al 7 febbraio. Oltre al riordinamento della scuola secondaria l’attenzione si concentrava sulla riforma universitaria; la critica della minoranza prendeva di mira in particolar modo i programmi della scuola media, l’esame di Stato e le limitazioni all’autonomia universitaria, e fu qui che si concentrarono le critiche al Liceo femminile.

I più agguerriti erano Ettore Pais, Nino Tamassia, Francesco Torraca, Girolamo Vitelli e Luigi Credaro, che non risparmiarono le critiche sulla nuova istituzione: «La scuola media appena creata», diceva Tamassia, «ebbe i suoi infortuni, i nati morti della Riforma: la scuola complementare, che con l’ossigeno del corsi integrativi non è più quella, e i licei femminili dai canti e dalle dolci danze».

L’onorevole Pais rincarò la dose, esponendo i programmi del nuovo istituto al pubblico dileggio, in un discorso che non mancò di riscuotere l’approvazione della platea; pur riconoscendo che l’idea di fondare una scuola per giovinette era buona, rispondendo all’esigenza delle famiglie che non accettavano la coeducazione dei sessi, criticava ferocemente lo spazio dedicato ai lavori femminili e all’economia domestica, che occupavano «nientemeno che sei pagine del programma» (dalle quali citava testualmente alcuni brani, suscitando l’ilarità dei presenti), a tutto svantaggio di altre fondamentali materie:

«Ma quello che è veramente strano e notevole è che nel liceo femminile manca assolutamente l’insegnamento delle scienze naturali. Così la giovinetta apprenderà benissimo quali cure si debbano avere per il cane e per il gatto, ma non saprà come trarsi d’impaccio in un caso di avvelenamento, non saprà che cosa sono un barometro o un termometro e così via dicendo. Infatti secondo il criterio di questo ordinamento le scienze naturali sono state assolutamente bandite dal ginnasio e dalle altre scuole medie inferiori».

La critica di Pais proseguiva stigmatizzando la concezione che Gentile, a suo parere, aveva del sesso femminile.

«Ora, a questo proposito, io ho un pensiero e cioè che l’ex-ministro, mosso certamente da un lodevole sentimento, abbia della educazione femminile un concetto un po’ antiquato. Ciò lo desumo anche da un altro fatto e cioè che nei licei femminili la direzione non può mai essere affidata ad una donna. E perché mai ? Noi oggi abbiamo avvocati donne, medici donne e ci prepariamo anche in un termine più o meno lontano all’elettorato femminile. Se poi guardiamo all’estero troviamo che ci sono perfino delle donne ministri, che partecipano agli affari di Stato. Ora io non dico che dobbiamo arrivare di corsa a questi estremi: sarebbe un gravissimo errore ed una infelicità per tutti. Forse ne avrebbe piacere il partito popolare perché i preti avrebbero modo di esercitare maggiore influenza; ma, ripeto, non voglio fare questioni politiche. Ma, d’altra parte, arrivare al punto che una donna, anche se meritevole, non possa dirigere un istituto femminile, mi pare che sia assolutamente un po’ troppo. In certi casi la donna alla direzione di questi istituti starebbe certamente meglio di un uomo attorniato da tante gonnelle. Del resto abbiamo avuto esempi luminosi in questa materia, come la Fuà Fusinato, la De Gubernatis ed altre ancora»

Il senatore Credaro, dal canto suo, rimproverava il ministro di aver «bandito le scienze dal liceo femminile» e di averle indebolite «nelle altre scuole medie per far posto alla filosofia», con l’errata convinzione che i giovani italiani possedessero «il suo bernoccolo metafisico»[53]. L’accesa discussione che si svolse, come abbiamo visto, anche su altri aspetti della riforma, non impedì che il bilancio del MPI venisse approvato[54].

Difese e critiche del Liceo femminile

Fin dal principio la riforma fu oggetto di critiche e lodi che apparvero sui principali quotidiani e periodici dell’epoca. I gentiliani Codignola e Lombardo Radice dall’inizio del 1923 pubblicarono sulle loro riviste articoli inneggianti alle creazioni della riforma, comprese quelle fallimentari quali il liceo femminile e la scuola complementare.

Un lungo articolo di Mario Casotti su «Levana», la rivista di Codignola, difendeva il Liceo femminile, che secondo l’Autore veniva a colmare la lacuna dell’istruzione femminile, tacciando gli oppositori di non possedere la necessaria competenza per criticare le istituzioni scolastiche.

Pur riconoscendo che la scuola creata da Gentile non era scevra di difetti, le attribuiva il merito di essere un coraggioso tentativo di risolvere l’annosa questione dell’istruzione femminile e difendeva a oltranza la cultura «disinteressata», condannando il «crasso utilitarismo della educazione familiare» che dilagava in Italia e allontanava gli alunni dei licei dall’amore per i «puri studi» con il miraggio di ben più lucrosi mestieri.

Una scuola di cultura disinteressata, sosteneva Casotti, era indispensabile per la donna, ancora più che per l’uomo, che poteva nascondere le proprie deficienze culturali nell’acquisizione di una professionalità, mentre la donna era destinata ad essere madre ed educatrice. Negando alla donna il diritto di intraprendere una professione e dedicarsi al lavoro fuori di casa, plaudiva al fatto che finalmente Gentile avesse istituito una scuola per le donne «senz’altro attributo», ossia per le casalinghe, salvaguardando il Paese dal pericolo di essere dominato da un tipo femminile che fosse «indescrivibile miscuglio della “femme savante” colla donnina allegra: istinti uterini rilegati in cartapecora da in-quarto, o coda di sirena seppellita sotto un ammasso di dispense universitarie»[56].

Se l’incredibile articolo di Casotti abbinava la cultura professionalizzante per la donna al meretricio, la difesa della scuola borghese era uno degli argomenti su cui si basava l’approvazione della rivista di Lombardo Radice, «L’Educazione Nazionale»; Ferdinando Pasini, preside del Liceo femminile di Trieste, elogiava la trasformazione del vecchio liceo austroungarico in vera scuola di cultura in cui le famiglie benestanti «potessero dare alle loro figliole un’educazione utile per la vita domestica, intesa però non nel senso di una vita bruta e materiale, ma sì di una vita illuminata e raggentilita dal sapere, dall’intelligenza e dal buon gusto».

Più avanti si spingeva ad affermare che il Liceo femminile non era una scuola del popolo, e che anzi «democratica fino a tal punto non è mai stata nessuna delle scuole medie. Le quali furono sempre, più o meno, campo riservato alla borghesia»[58]: il ministro non aveva modificato nulla, limitandosi a riconfermare il carattere elitario di certi tipi di scuole.

In genere i difensori del Liceo femminile ammettevano che la scuola non era ancora perfetta, e che durante gli anni si dovessero fare degli aggiustamenti di tiro come in ogni istituzione sperimentale. Oltre che sui periodici, la riforma venne fatta oggetto di larghe approvazioni nei testi degli allievi e dei sostenitori di Gentile che si susseguirono fittamente nel periodo ad essa successivo.

Dario Lupi, sottosegretario del MPI ed esponente del PNF, dava alle stampe nel 1924 La riforma Gentile e la nuova anima della scuola, libro che raccoglieva le relazioni dei direttori generali della PI, ovviamente esaltanti il nuovo assetto scolastico; la relazione di Trivelli, reggente generale per l’istruzione media, definiva «pregio non piccolo del decreto 6 maggio» l’aver distinto le scuole una dall’altra, assegnando a ciascuna un fine specifico.

Ferruccio Boffi nel suo La riforma scolastica e il gabinetto Gentile si faceva portavoce della storia ufficiale della riforma, in quanto capo dell’ufficio stampa del ministro, e sosteneva le innovazioni gentiliane, fra cui il Liceo femminile, che aveva il merito di fornire alle fanciulle «un corredo di cognizioni utili per il ménage domestico e per i rapporti sociali correnti». Carmelo Licitra, altra fra le figure che circondavano Gentile, lodava la funzione selettiva della scuola media come «passaggio dal popolo alle aristocrazie spirituali».

Balbino Giuliano, futuro ministro della PI, firmava uno sperticato elogio della riforma, sostenendo che la divisione delle scuole in liceo, istituto tecnico e scuola complementare, cui si aggiungevano i più particolari istituto magistrale e Liceo femminile, rispondeva in pieno alle diverse finalità dell’educazione, della vita nazionale e delle esigenze economiche delle varie classi sociali[62]; altri consensi si levavano dai gentiliani, fra i quali Carmelo Sgroi, allievo del filosofo, autore di un saggio retorico e genericamente elogiativo, com’era lo spirito di certa letteratura fascista[63]. Fazio Allmayer, uno dei più fedeli allievi di Gentile all’epoca, riassumeva così il carattere elitario e antifemminista del Liceo femminile:

«L’istituto che si differenzia dagli altri è il liceo femminile dove, accanto a una preparazione pratica (lavoro, economia domestica) atta a fare dell’alunna una buona madre di famiglia, si ha un insegnamento con caratteri artistici, tale da affinare l’animo, da renderlo più sensibile all’ordine, alla bellezza, all’umanità della vita. È un’educazione un po’ aristocratica; ma non aristocratica in senso cattivo, cioè frivola e superficiale, aristocratica in senso buono, fatta di finezza, di signorilità, di umanità».

Sul fronte opposto le critiche assumevano toni polemici e sovente indignati. Contro la riforma si schierò l’area socialista, con i quotidiani «L’Avanti !» e «La Giustizia» e le riviste «Critica Sociale» e «Libertà»; liberali, repubblicani e radicali, con «Il Mondo», «La Rivoluzione Liberale», La «Voce Repubblicana» e «La Stampa»; gli intellettuali comunisti, in «Ordine Nuovo», e i radicali democratici di Credaro nella «Rivista Pedagogica»; anche Gramsci, dal carcere, denunciava le discriminazioni di classe della riforma, accennando alle scuole fini a se stesse per signorine.

Furono numerosi gli interventi nel periodo immediatamente seguente all’applicazione del nuovo ordinamento scolastico, che durarono fittamente fino all’estate del 1924, fin quando il delitto Matteotti e l’instaurazione del regime totalitario costrinsero la stampa di opposizione ad occuparsi di altri e ben più gravi eventi.

«Colla molle danza si educhino in pubbliche scuole gli ingannevoli cuori e con varie dosi di giuridica scienza ed economica e storica e metafisica e linguistica, strane civetterie inoculate per diletto, si insegni ai deboli cervellini non altro che la nausea della saggezza e nuovi sogni esperti e complicati spleen di bambole parigine».

Lo sdegno con cui in queste righe si esprimeva Gobetti emergeva in tutti i copiosi articoli apertamente polemici che «La Rivoluzione Liberale» pubblicò all’indomani della riforma; Augusto Monti, che già aveva sottoscritto il Fascio di educazione nazionale insieme a Gentile, era uno dei nomi che più spesso apparivano in calce agli articoli di terza pagina che tuonavano contro l’opera del filosofo siciliano.

In particolare, Monti polemizzava contro la scuola di «cultura generale», considerandola la rovina dell’istruzione, contro il monopolio governativo sulla scuola e l’esame di Stato, contro il carattere elitario della riforma che privilegiava i «galantuomini» a scapito delle classi proletaria e piccolo-borghese: «Sociale dunque la riforma Gentile più che politica: cioè rivolta a favorire più una classe che l’altra, anzi, in una classe, più una categoria che l’altra»[68].

«La Voce Repubblicana», che in un editoriale contestava la scelta di diminuire il numero delle scuole definendolo «una furiosa e precipitosa devastazione degli istituti presenti non accompagnata da un altrettanto celere e giudiziosa loro ricostruzione », ospitava l’opinione di un anonimo preside sull’accantonamento delle materie scientifiche nel Liceo femminile:

«Troviamo poi un Liceo femminile dal quale usciranno signorine che balbetteranno qualche frase latina e si mostreranno mediocrissime nel ballare, nel danzare, nel suonare uno strumento musicale, ma poi non sapranno fare un conto (nel Liceo femminile non vi è aritmetica) e non capiranno nulla della vita reale (nel liceo femminile non vi è traccia di scienze sperimentali) »[70].

Il Liceo femminile, di cui nessuno sentiva il bisogno, poiché le famiglie avrebbero seguitato a ricorrere all’insegnamento privato per le loro figliole, era una scuola di classe e anacronistica[71]. Anche «Il Mondo», fra le sue stroncature alla spirito antidemocratico e antiliberale della riforma, definiva il Liceo femminile un «istituto senza ragion d’essere e senza vita»[72].

La «Critica Sociale» riportava nel 1923 il giudizio di Rodolfo Mondolfo sulla soppressione di molte scuole normali:

«L’indirizzo antidemocratico di questa azione scolastica non ha bisogno di essere dimostrato. Tanto più che le fa riscontro l’istituzione di una scuola di puro lusso […] che non deve servire a nessuna finalità sociale. È questo il caso dei licei femminili, che devono rispondere unicamente al desiderio delle classi ricche, di un raffinamento della cultura delle signorine, cui lo Stato fornirà d’ora in avanti, insieme colla danza e lo strumento musicale, anche il latino e la filosofia, capaci di renderne più intellettuale la conversazione. Il concetto che il dovere dello Stato si estenda fin dove arriva l’interesse pubblico, e che agli interessi privati debban provvedere le famiglie, è così abbandonato e capovolto: quel che è conteso al bisogno sociale è concesso al lusso privato».

Il periodico socialista pubblicò in diversi numeri, nel 1924, una serie di interventi di Emidio Agostinone, poi riuniti in un polemico libello intitolato La più fascista delle riforme fasciste, che insisteva sul ruolo classista del «nato morto» Liceo femminile: «Un Liceo per signorine non poteva essere che una scuola di classe, dedicata alla media e ricca borghesia, e come tale doveva far leva sul desiderio che alcune famiglie hanno vivissimo: quello di separare le loro figliole, recisamente, da quelle delle altre classi sociali», e ne invocava l’immediata soppressione.

Più cautamente si pronunciava «La Civiltà Cattolica», a un anno dall’istituzione del Liceo: pronosticava che non avrebbe avuto molte iscritte, a motivo della sua finalità di scuola di cultura, già assolta egregiamente dagli istituti femminili religiosi, i quali inoltre agivano nel rispetto dell’educazione morale e che accoglievano anche le figlie dei fautori della scuola laica, e ne approfittava per lanciarsi in una requisitoria contro questi ultimi:

«Infatti, negli educandati delle religiose vi sono figlie di senatori, deputati e uomini politici, i quali, con stridentissima incoerenza, promovevano leggi di laicità e restrizioni e vessazioni alle scuole private, a quelle appunto cui preferiscono affidare l’educazione delle loro figliole !»[76].

Per il resto, la rivista si limitava a polemizzare contro l’esame di Stato, mentre riconosceva alla riforma il merito di aver reintrodotto il latino nella scuola media, del quale era «ingiusta […] l’esclusione dalla cultura della donna, in ordine alla sua formazione cristiana ed italiana».

Il quotidiano del Partito Popolare, “Il Popolo”, si muoveva su analoghe requisitorie contro l’esame di Stato, approfittando dell’argomento “Liceo femminile” per ribadire il ruolo essenziale delle scuole private: del Liceo di regia istituzione non si sentiva alcuna necessità, perché all’uopo servivano già le numerose e ottime scuole private, che non sfornavano diplomi, bensì educavano anime e formavano coscienze.

Alle obiezioni di chi sosteneva che le scuole private erano costose, l’Autore dell’articolo, Lully, non si faceva scrupolo di dichiarare: “La scuola […] è un lusso sublime, chi questo lusso non può permetterselo ne faccia a meno !”, e proseguiva con la proposta di sbarrare le scuole pubbliche ai “mocciosi, i fannulloni e i poltroni” che sarebbero riusciti meglio nei mestieri di falegname, sarto o calzolaio; se poi alcuni meritevoli fossero rimasti esclusi dalle scuole di Stato, pazienza, lo Stato li avrebbe indirizzati verso le private, naturalmente confessionali[78].

Decadenza e fine ingloriosa di una scuola inutile

Nell’anno scolastico 1925-26 le alunne del Liceo femminile erano 113: una cifra sparuta, se messa a confronto con quella degli altri istituti. L’altra scuola femminile, che il Liceo femminile doveva nelle intenzioni in buona parte soppiantare, il magistrale, aveva 21.491 iscritte, di cui 8.607 nel corso superiore; la complementare, che di lì a poco sarebbe stata soppressa, era frequentata da 54.305 iscritti, seconda solo al ginnasio-liceo, che fra gli istituti regi e i pareggiati raggiungeva i 55.333 iscritti.

Seguivano gli istituti tecnici, con un totale di 34.117 alunni, i ginnasi isolati, con 11.894, i neonati licei scientifici, con 5.492 alunni; e, infine, i famosi corsi integrativi di gentiliana ideazione, con i suoi scarsi 2.854 iscritti, che erano purtuttavia una folta popolazione se paragonata a quella dei licei per signorine. Le statistiche ci informano sulle preferenze delle giovinette, che si iscrivevano in massa all’istituto magistrale (19.361) e alle scuole complementari (17.260); al terzo posto c’era il ginnasio-liceo (9.340), seguivano con largo distacco gli altri istituti.

Il Liceo femminile era l’ultimo: solo la sezione di agrimensura dell’istituto tecnico aveva racimolato un numero inferiore di alunne, appena 46. Ma era un risultato fallimentare per una scuola che doveva rappresentare il luogo di formazione culturale per la donna, e la dimostrazione che le fanciulle continuavano a rivolgersi all’istituto magistrale, contrariamente a quanto Gentile aveva pronosticato.

L’anno successivo la situazione non era migliorata. Le allieve del Liceo femminile erano calate a 102, mentre la popolazione scolastica complessiva era aumentata di 5.712 unità (da 185.509 a 191.311): l’istituto magistrale contava ora, nel solo corso superiore, 7.973 alunne e 19.697 nei due corsi. L’incremento si registrava in tutti gli altri corsi, esclusa la sezione di agrimensura con due sole allieve, e il Liceo femminile perdeva colpi.

Redazione

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